domenica

Immanuel Kant


importanza di Kant

Si possono sintetizzare due grandi possibilità: c'è chi lo ritiene pensatore della massima importanza, vero crocevia del pensiero occidentale, imprescindibile pietra miliare della storia della filosofia, che si dividerebbe addirittura in un "prima" e "dopo" Kant; si tratta di coloro che vogliono negare la possibilità, per la conoscenza umana, di essere aperta alla realtà, di cogliere le cose stesse (le cose-in-sé); si tratta cioè del pensiero, egemone nella cultura occidentale nel XIX e XX secolo, antimetafisico, ivi includendo anche idealismo e neoidealismo, che concordano nel negare la conformità dell'intelligenza a un dato, che la precede e la giudica. Non per nulla Hegel stima Kant come un punto di passaggio essenziale del cammino della filosofia.

C'è però chi relativizza l'importanza di Kant, e mette in discussione il diktat storicistico dell'inesorabile superamento della metafisica. Kant, in questa prospettiva, è sì un pensatore importante, ma più come testimonianza, o meglio sintomo, di una voluta e tutt'altro che inevitabile curvatura del pensiero occidentale in senso antimetafisico, una curvatura che, lungi dall'essere dettata dallo sviluppo del sapere scientifico, sarebbe funzionale a un progetto, che in sintesi possiamo chiamare di indipendenza dall'oggettivo. Noi, al seguito di molto pensiero cattolico contemporaneo, riteniamo più vera questa seconda posizione.
opere
Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenscaft Principi metafisici della scienza della natura
Pensieri sulla vera natura delle forze vive 1747
Principiorum primorum cognitionis metaphysicae nova dilucidatio 1755
Monadologia physica Monadologia fisica 1756
L’unco argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio 1763
I sogni di un visionario spiegati coi sogni della metafisica 1766
Dissertatio de mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis 1770
Kritik der reinen Vernuft Critica della Ragion Pura 1787
Kritik der praktischen Vernuft Critica della Ragion Pratica 1788
Kritik der Urteilskraft Critica del Giudizio 1790
Die Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernuft La religione entro i limiti della semplice ragione 1793
Per la pace perpetua 1795
La metafisica dei costumi 1797
La ragione in Kant

L'importanza di Kant sta nell'essere stato capace di riprendere e portare a sintesi il processo di vaglio dei limiti e delle possibilità della conoscenza umana, avviato nella filosofia moderna già da Cartesio, ma in qualche modo operante fin dalla dissoluzione della Scolastica (pensiamo a Ockham, che già mette in discussione la possibilità di una metafisica).

Tale processo si era, stando alla ricostruzione fatta dallo stesso Kant, biforcato in due grandi correnti, l'empirismo (fiorito in particolare in Inghilterra) e il razionalismo: alla prima appartengono Locke, Hume (e in qualche modo anche Berkeley), alla seconda Cartesio, Spinoza, Leibniz, per citare solo i maggiori. In tale processo viene messa in dubbio quella che per la filosofia antica e medioevale era una certezza immediata, che cioè la ragione sia apertura all'essere, pensi la realtà stessa, e che perciò sia possibile la metafisica, che è discorso sull'essere, sulla realtà nelle sue leggi più fondamentali. Viene messa in dubbio quella convinzione e al suo posto subentra il dubbio su ciò che davvero la ragione conosca: si conoscono le cose stesse, la realtà stessa? E si possono raggiungere delle verità universali (valide cioè sempre e dovunque)?
1a) La filosofia moderna: una parabola con molti presupposti convergenti

Su alcuni punti razionalismo ed empirismo moderni convergevano.
il dualismo

1) Convergevano nel ritenere ad esempio che ciò che si conosce non sono immediatamente le cose stesse, ma le nostre rappresentazioni soggettive delle cose, cioè le idee. Questo punto è noto come dualismo gnoseologico, dove la dualità è tra idee, che sono l'oggetto immediato della conoscenza e cose, che sono l'oggetto ultimo della conoscenza, ciò a cui insomma rimandano e si riferiscono le idee. D'accordo su questo troviamo sia Cartesio (che pone proprio per tale dualismo il problema di come si possa essere certi che alle idee corrispondano le relative cose, escogitando l'esistenza di Dio come soluzione a tale problema), sia Spinoza (che risolve il problema ponendo un parallelismo tra idee e cose, emanazioni dell'identica Sostanza), sia Locke e Hume (la conoscenza umana non raggiunge se non le proprie impressioni e idee).
la pretesa razionalista

2) Convergenza troviamo anche nel ritenere che sia accettabile come vero solo ciò che è pienamente comprensibile, solo ciò che è filtrabile dai criteri di una ragione che si pone come misura di tutto.

Vediamo da questi due punti come sia il razionalismo sia l'empirismo siano espressioni di una mentalità antropocentrica: il soggetto umano è al centro, la sua ragione è 1) orizzonte intrascendibile e 2) criterio insuperabile.
1b) la biforcazione della filosofia moderna

Ma razionalismo ed empirismo divergevano sul rapporto tra sensi e pensiero: mentre per il razionalismo la conoscenza può giungere a verità universali (nel senso già chiarito), e lo può grazie al fatto che esse sono in qualche modo già presenti nel pensiero (innatismo), per l'empirismo la conoscenza, non avendo in sé alcun contenuto innato (la mente è originariamente tabula rasa), non può mai giungere a un livello universale, ma ha come unico contenuto il dato sensibile particolare. Anche qui però c'è un presupposto comune: che sia impossibile quella che Tommaso d'Aquino chiamava astrazione, cioè il cogliere l'universale dentro il particolare, l'intelligibile dentro il sensibile (esistenzialmente= il poter dare un giudizio sull'esperienza che nasca dall'esperienza stessa, ma sia stabilmente certo). E infatti l'intelligibile, l'universale, o c'è già dentro di noi (come per il razionalismo innatista), oppure non lo potremo raggiungere mai (come per l'empirismo).

In questo modo il pensiero moderno (considerato da Kant) si divarica tra due estremi: un razionalismo, che ha il pregio di riconoscere la conoscenza di verità universali, e dunque di certezze stabili, ma il limite di fondarle su una interiorità chiusa e autosufficiente, non alimentata dall'oggettività; e un empirismo che riconosce sì il debito della conoscenza verso il mondo "esterno", ponendosi in atteggiamento di attenzione al nuovo, ma si preclude la possibilità di dare un vero giudizio sull'esperienza, che alla fine si sgretola in uno sciame disarticolato di particolari.
2a) Kant, compimento della parabola moderna:
la "rivoluzione copernicana"

Abbiamo detto sopra che sia il razionalismo sia l'empirismo sono stati espressione di una mentalità antropocentrica, per la quale il soggetto umano è al centro. Ma almeno entrambe le impostazioni salvavano ancora un residuo di realismo, nel pensare che le idee, per quanto concepite come il primo e immediato oggetto della conoscenza umana, siano comunque l'esatto calco, l'esatto rispecchiamento delle cose, che esistono oggettivamente, indipendentemente dal soggetto. In qualche modo quindi per tali impostazioni restava pur sempre valida l'antica definizione di verità come "adaequatio mentis ad rem": è la mente umana che deve adeguarsi, conformarsi alla cosa; si conosce la verità quando si pensa ciò che esiste, quando nel pensiero (nel soggetto) si forma una identità con realtà (oggettiva).

Kant invece si spinge oltre, in direzione di un più radicale antropocentrismo, e ritiene che non sia la conoscenza del soggetto a doversi conformare alla realtà, ma siano piuttosto gli oggetti a doversi conformare alle leggi del soggetto. È quella che lo stesso filosofo prussiano chiamava, con orgoglio, la rivoluzione copernicana con cui, analogamente a come Copernico aveva radicalmente riformulato i termini del problema astronomico, egli pensava di aver radicalmente (e definitivamente) reimpostato il problema gnoseologico: non il soggetto ruota attorno all'oggetto, ma al contrario l'oggetto ruota attorno al soggetto, si piega docilmente alle sue leggi e alle sue strutture conoscitive.
diverse possibili interpretazioni

Di tale rivoluzione copernicana si possono dare diverse interpretazioni. Si può vederla come accettazione del limite della conoscenza umana, che filtrando inevitabilmente gli oggetti attraverso le proprie strutture risulta incapace di cogliere la realtà in sé, ossia la verità assoluta (=sciolta da, non relativa ai condizionamenti limitanti del soggetto); in questo senso Kant sarebbe il filosofo della finitezza, l'ultimo dei moderni; così egli viene per lo più interpretato da parte di filosofi "del limite", come gli esistenzialisti (in Italia ad esempio Abbagnano ha sostenuto questa linea). Ovvero si può considerare la "rivoluzione copernicana" come espressione del potere, in qualche modo creativo, del soggetto e della ragione: ciò che importa in quest'altra prospettiva non è il fatto che le cose-in-sè restino sempre al-di-là, importa piuttosto che il fenomeno conosciuto sia essenzialmente determinato, plasmato dal soggetto; il soggetto pertanto non ha più un ruolo passivo, non si limita a registrare un dato, ma attivamente forgia questo dato, conferendogli le sue forme a-priori. La parte del leone insomma non la fa la cosa-in-sè, che si limita a fornire al fenomeno una informe e malleabile materia, ma il soggetto conoscente, che organizza e struttura tale materia dentro le proprie forme (le "intuizioni pure" e le "categorie"). In questo senso Kant sarebbe il filosofo non già della finitezza e del limite, ma della (tendenziale) infinitezza, del potere creativo del soggetto, e dunque non l'ultimo dei moderni, ma il primo dei contemporanei, in quanto antesignano dell'idealismo.

È chiaro che se fosse vera la prima linea interpretativa la filosofia di Kant sarebbe meno inaccettabile dal punto di vista del realismo, potendosi considerare come sofferta e dolorosa rassegnazione all'impossibilità di accedere a un assoluto di verità, di cui pure egli riconosce una inestirpabile nostalgia; mentre se fosse vera la seconda non si potrebbe che bollare l'impresa kantiana quale espressione di un superbo e prometeico antropocentrismo, dimentico della concretezza del dramma umano. In realtà convivono in Kant, non senza contraddizione, entrambi questi aspetti: una residua onestà nel riconoscere che il desiderio che anima la ragione è conoscere la realtà in sé, la verità assoluta, che è oltre il fenomeno scientificamente indagabile; ma anche la preconcetta e trionfante esultanza di aver "liberato" l'umanità dal giogo di una sottomissione all'oggettivo (e qui la dice lunga la sua posizione, di saccente disprezzo, nei confronti della Chiesa e di Cristo). Il fatto è che a Kant sfuggiva come fosse contraddittorio aspirare alla verità (assoluta) senza piegarsi alla Verità (del Mistero): un assoluto senza l'Assoluto, tale sembra essere il segreto (e paradossale) voto dell'asceta laico di Königsberg.
2b) e (preteso) punto di convergenza della biforcazione

Kant, valendosi della sua "rivoluzione copernicana", pretende di fornire la soluzione sintetica alla diatriba sopra vista tra razionalisti ed empiristi, assimilando elementi da entrambi. Ma vedremo come tale sintesi sia insoddisfacente.

Prima però dobbiamo osservare che è comunque riduttivo esaurire la parabola della filosofia moderna in una dialettica tra razionalismo ed empirismo; la storia della filosofia moderna è stata ben più ricca e complessa, ed è attraversata da altre contrapposizioni: ad esempio quella tra una modernità laica e quella tra una modernità cristiana; ma non a caso Kant ignora tale complessità: lo schema che da sapiente regista propone, mettendo in scena solo quei due attori (razionalismo ed empirismo), è funzionale alla sua risolutrice comparsa finale, da deus ex machina che finalmente svela ogni enigma.

Perché comunque Kant può presentarsi come sintesi di razionalismo ed empirismo? Lui stesso lo spiega, introducendo il concetto di giudizi sintetici a-priori: tali giudizi presentano il vantaggio di assicurare alla conoscenza un livello di universalità, quale era fin allora prerogativa del razionalismo, senza restare però vittima di quello che del razionalismo era il difetto, ossia la chiusura del pensiero in sé stesso. I giudizi sintetici a-priori infatti godono tanto della universalità loro assicurata dalla componente della forma a-priori, quanto della fecondità, cioè della possibilità di arricchimento di nuovi contenuti, che deriva loro in forza dell'apporto dell'esperienza (dato il loro carattere sintetico). Il valore dell'esperienza, caro all'empirismo, viene così recepito nel carattere di sinteticità di tali giudizi, ma viene recepito anche il valore della razionalità universalizzatrice, caro al razionalismo, nel loro carattere di a-priorità. L'esperienza, così, non può fare a meno del concetto, della ragione, e il concetto a sua volta non può fare a meno dell'esperienza: "i concetti senza intuizioni sono vuoti", contro il razionalismo (vacuità tautologica dei giudizi analitici a-priori), ma al contempo "le intuizioni senza concetti sono cieche" (frammentata dispersività dei giudizi sintetici a-posteriori).

Dobbiamo però chiederci se davvero tale sintesi sia soddisfacente. La risposta è negativa, poiché da una parte l'universalità garantita dalla componente a-priori è una universalità per così dire a) forzosa, e b) circoscritta al fenomeno, inteso come lo intende Kant; d'altra parte l'esperienza che viene inglobata nei giudizi sintetici a-priori non è realmente l'esperienza nel suo darsi integrale di effettiva novità e imprevedibilità. Spieghiamo che cosa vogliamo dire: universalità "forzosa", tale cioè perché imposta dal soggetto; essa non scaturisce dalla cosa conosciuta, ma è il soggetto che impone all'oggetto conosciuto il suo "stampino"; resta perciò il dubbio che tale universalità non sia vera, ma sia semplicemente un abito con cui la mente umana riveste gli oggetti; "circoscritta al fenomenico", perché per Kant i giudizi legittimi riguardano solo il fenomeno, e questo termine non solo non designa la realtà creata, finita (in quanto distinta da Dio, e già sarebbe una limitazione, poiché l'essere si estende all'Infinito, che anzi, solo, propriamente, è), ma non designa nemmeno la realtà del mondo corporeo (esso stesso è un noumeno, per Kant), limitandosi piuttosto al livello di ciò che è scientificamente conoscibile. Allora si vede che l'universalità dei giudizi è funzionale esclusivamente alla scienza, non c'entra nulla con la sapienza, non serve cioè a dare un giudizio sul significato della realtà. Il che è una lacuna non da poco. Perché ne viene l'impossibilità della metafisica, il non poter dire nulla sul senso dell'esistenza.

Infine: l'esperienza di cui parla Kant è una falsa esperienza, una esperienza in cui non può accadere niente di realmente nuovo. Infatti è un'esperienza ingabbiata nell'a-priori, per il motivo detto prima: l'universalità, esistenzialmente il giudizio, non è tratto dall'esperienza, ma a questa viene imposto.
3) la ragione e il Mistero

Gli esiti sono noti: per Kant da un lato la ragione niente può dire di certo sull'esistenza del Mistero (dal punto di vista dell'ontologia), d'altro lato (dal punto di vista dell'etica) essa detta legge al Mistero, pretende di incapsularlo "nei limiti della pura ragione". Tra tali due tesi c'è uno stretto legame: è proprio la "libertà" di cui gode il soggetto razionale di fronte al Mistero (libertà derivantegli dalla sua impossibilità di riconoscerne con certezza l'esistenza, vedi negazione della metafisica: "Non conosco quell'Uomo") che lo rende poi spavaldo e spregiudicato nell'imporre i suoi dettami a quel Mistero che è ormai sua benevola e magnanima concessione. Per questo Kant può dar luogo a una vera e propria strumentalizzazione di Dio a fini etici (occorre che Dio esista, perché l'etica sia fondata: l'ontologico al servizio dell'etico), e per questo può rinserrare la religione "nei limiti della pura ragione", escludendo qualsiasi possibile iniziativa di automanifestazione del Mistero, ridotto, illuministicamente del resto, a fredda entità. Una entità, di cui non si può fare a meno (sennò come faremmo ad avere una ricompensa eterna per la virtù?), ma che va il più possibile messa in riga e tenuta a debita distanza (mai si vedrà il Suo Volto: l'occupazione delle anime, nella vita futura, sarà quella di perfezionare la propria virtù, in un eterno e mai compiuto lavorio).
per un giudizio
per un giudizio

Il giudizio complessivo su Kant è dunque negativo:

* se è vero che, a differenza di Hegel, riconosce l'esistenza di una oggettività, altra dal soggetto e dal suo pensiero, è anche vero che questa oggettività si trova relegata a una sorta di docile cagnolino, che non può disturbare il padrone-soggetto; il noumeno infatti, relegato in una inaccessibile lontananza, si limita a fornire malleabile "materia" conoscitiva a un soggetto che è il vero artefice e demiurgo della conoscenza.
* E se è vero che a differenza di Hegel, Kant sembra ammettere l'esistenza di un Dio trascendente, è altrettanto vero che gli pone dei limiti tali da renderlo una sorta di entità inerte, quasi un distributore automatico di premi eterni, sottomesso a leggi interamente comprensibili alla razionalità umana. E' un Dio senza volto, non è certo il Mistero buono che crea tutte le cose e ama di un amore personale le sue creature umane. E infatti Kant non aspetta niente di nuovo da Dio: sa già tutto. Ha già deciso che Dio non possa parlargli, non possa rivelarsi a lui: ad esempio è graniticamente sicuro che il Cristianesimo, come "religione rivelata" sia falso, perché Dio non può rivelarsi, mummificato com'è in un impietrito silenzio.
* E in campo etico, è vero che a differenza di Hegel egli ritiene che l'individuo umano possa cogliere un dovere morale che lo possa far resistere ai condizionamenti delle mode sociali, ma si rivela disumano nel pensare che si possa obbedire a una legge morale per un dovere autofondantesi, privo dal riferimento a qualsiasi tu, umano e divino: mentre la radice della moralità è la gratitudine, e Dio sostiene la nostra debolezza dandosi il sostegno di una compagnia viva (e questo Hegel lo aveva un po' intravisto, perché l'eticità per lui è resa possibile solo da un contesto relazionale, anche se poi questo contesto lo identifica in ultima analisi nello Stato, commettendo così un grave errore), senza cui osservare precetti morali sarebbe di fatto inacidita testardaggine e disumano fariseismo.

testi
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LA RIVOLUZIONE COPERNICANA IN FILOSOFIA

Finora si è creduto che ogni nostra conoscenza debba regolarsi sugli oggetti; ma tutti i tentativi, condotti a partire da questo presupposto, di stabilire, tramite concetti, qualcosa a priori intorno agli oggetti, onde allargare in tal modo la nostra conoscenza, sono andati a vuoto.

È venuto il momento di tentare una buona volta, nel campo della metafisica, il cammino inverso, muovendo dall'ipotesi che siano gli oggetti a dover regolarsi sulla nostra conoscenza; ciò si accorda meglio con la auspicata possibilità di una conoscenza a priori degli oggetti, la quale affermi qualcosa nei loro riguardi prima che ci vengano dati.

Qui le cose stanno né più ne meno come con i primi pensieri di Copernico; il quale, incontrando difficoltà insormontabili nello spiegare i movimenti celesti a partire dall'ipotesi che l'insieme ordinato degli astri ruotasse intorno allo spettatore, si propose di indagare se le cose non procedessero meglio facendo star fermi gli astri e ruotare lo spettatore intorno a loro. Nella metafisica un tentativo del genere può essere messo in atto per quanto riguarda l'intuizione degli oggetti. Se l'intuizione si deve regolare sulla costituzione degli oggetti, non vedo come sia possibile saperne qualcosa a priori; se invece è l'oggetto (in quanto oggetto sensibile) a doversi conformare alla natura della nostra facoltà intuitiva, posso immaginare benissimo questa possibilità. Poiché non posso arrestarmi ad intuizioni di questo genere, se debbono divenire conoscenze, ma debbo riferirle come rappresentazioni ad alcunché quale oggetto, da determinarsi tramite loro, non mi resta che o ritenere che i concetti, mediante i quali attuo questa determinazione, si regolino come tali sull'oggetto - nel qual caso ricado nella stessa difficoltà, circa il modo in cui mi sia dato conoscere alcunché a priori - oppure, all'opposto, ritenere che gli oggetti, o anche, il che fa lo stesso, l'esperienza nella quale soltanto possono venire conosciuti (in quanto oggetti dati), si regolino su questi concetti. In questo caso mi pare che la via d'uscita sia più facile, poiché l'esperienza è come tale una sorta di conoscenza tale da richiedere l'intelletto, la cui regola debbo presupporre in me, ancor prima che mi siano dati gli oggetti, e cioè a priori; e questa regola si concreta in concetti a priori, rispetto ai quali tutti gli oggetti dell'esperienza debbono regolarsi, e coi quali debbono accordarsi. (Critica della ragion pura, Prefazione, II Edizione).
SPAZIO E TEMPO COSA SONO?

Che sono dunque spazio e tempo? Sono forse entità reali? O sono semplicemente determinazioni, o anche rapporti, delle cose, tali comunque da appartenere anche alle cose in sé, quand'anche non fossero intuite? Oppure sono tali da appartenere soltanto alla forma dell'intuizione, e quindi alla costituzione soggettiva nostro animo, senza di che questi predicati non potrebbero venir attribuiti a cosa alcuna? [...].

Tempo e spazio sono due sorgenti conoscitive, a cui è possibile attingere a priori svariate conoscenze sintetiche, delle quali ci offre un esempio luminoso la matematica pura, per quanto concerne la conoscenza dello spazio e dei suoi rapporti. Posti assieme, essi sono forme pure di tutte le intuizioni sensibili, e in questa veste rendono possibili proposizioni sintetiche a priori. Ma queste sorgenti conoscitive a priori, non essendo altro che condizioni della sensibilità, si determinano per ciò stesso i loro limiti, consistenti nel riferirsi agli oggetti solo in quanto vengano considerati come fenomeni, senza pretendere di esibire cose in sé. Il campo della loro validità è circoscritto ai fenomeni, uscendo dai quali non è più dato alcun uso oggettivo di queste sorgenti conoscitive.

Questa realtà dello spazio e del tempo nulla toglie del resto alla sicurezza della conoscenza sperimentale, poiché la certezza che ne abbiamo non muta se queste forme ineriscono alle cose in sé oppure solo alla nostra intuizione delle cose, purché in modo necessario. Quanti invece sostengono la realtà assoluta dello spazio e del tempo, la considerino sussistente o solo inerente, non possono fare a meno di entrare in conflitto. con i principi dell'esperienza. (Critica della Ragion Pura, Estetica, § 7)
PENSIERO ED ESPERIENZA
i due fattori dell'esperienza

Non c'è dubbio alcuno che ogni nostra conoscenza incomincia con l'esperienza; da che mai infatti la nostra facoltà di conoscere sarebbe altrimenti messa in moto se non da parte di oggetti che colpiscono i nostri sensi, e da un lato determinano le rappresentazioni, mentre dall'altro mettono in moto cattività del nostro intelletto a raffrontare queste rappresentazioni, a unirle o a separarle, e ad elaborare in tal modo la materia prima delle impressioni sensibili, in vista di quella conoscenza degli oggetti che si chiama esperienza? Quanto al tempo, pertanto, nessuna conoscenza precede in noi l'esperienza, e tutte incominciano con lei.

Ma benché ogni nostra conoscenza incominci con l'esperienza, da ciò non segue che essa derivi interamente dall'esperienza. Potrebbe infatti avvenire che la nostra stessa conoscenza empirica fosse un composto di ciò che riceviamo mediante le impressioni e di ciò che la nostra facoltà conoscitiva vi aggiunge da sé sola (semplicemente stimolata dalle impressioni sensibili); aggiunta, questa, che non distinguiamo da quella materia primitiva, fintantoché un lungo esercizio non ce ne abbia resi consapevoli, poiiendoci in grado di separare i due fattori.

Vi è dunque almeno una questione bisognosa di un ulteriore esame, e di cui non è possibile sbrigarsi a prima vista, e cioè se esista una simile conoscenza, indipendente dall'esperienza ed anche da ogni impressione sensibile. Tali conoscenze sono detlte a priori e sono distinte dalle empiriche, che hanno la loro sorgente a posteriori, ossia nell'esperienza. (Ibidem, Introduzione, I).
universalità e necessità sono i contrassegni delle conoscenze pure a priori

Ciò che ora ci occorre è un segno distintivo per separare con sicurezza una conoscenza pura da una empirica. Certamente l'esperienza ci insegna il modo in cui una cosa è fatta, ma non ci dice che non può essere fatta diversamente. In primo luogo , dunque, se una proposizione viene pensata assieme alla sua necessità , è un giudizio a priori; se per di più deriva esclusivamente da un'altra proposizione che abbia a sua volta valore di proposizione necessaria, la proposizione è assolutamente a priori. In secondo luogo, l'esperienza non conferisce mai ai suoi giudizi una universalità autentica e rigorosa, ma semplicemente una universalità presunta e comparativa (per induzione), sì che si deve propriamente dire: stando a quanto abbiamo finora osservato, non risulta alcuna eccezione a questa o a quella regola. Quando dunque un giudizio venga pensato con rigorosa universalità, cioè in modo tale da non tollerare eccezione di alcun genere, esso non deriva dall'esperienza, ma è valido assolutamente a priori.(Ibidem, Introduzione, Il).
la conoscenza umana richiede l'esistenza di giudizi e di concetti a priori

Orbene, è facile dimostrare che nella conoscenza umana si danno effettivamente simili giudizi, necessari e universali nel senso più rigoroso, e quindi puri a priori. Se si vuole un esempio ricavato dalle scienze, non si deve far altro che prendere in esame tutte le proposizioni della matematica; se si vogliono esempi ricavati dal più comune uso dell'intelletto, può bastare la proposizione che ogni mutamento deve avere una causa; in quest'ultima proposizione, anzi, il concetto stesso di una causa contiene cosi palesemente il concetto di una necessità della connessione con un effetto e di una rigorosa universalità della legge, che esso andrebbe del tutto perduto se si pretendesse ricavarlo, come fece Hume, dal ripetuto associamento di ciò che accade con ciò che precede, e dalla conseguente abitudine (e perciò da una necessità semplicemente soggettiva) di connettere talune rappresentazioni. Anche senza far ricorso a simili esempi per stabilire la effettiva sussistenza di princìpi a priori della nostra conoscenza, si potrebbe dimostrare che essi sono indispensabili per la stessa possibilità della nostra esperienza, dandone così una prova a priori. Donde mai, infatti, l'esperienza trarrebbe la sua certezza se le regole secondo cui essa procede fossero in ogni caso empiriche e quindi contingenti? Come potrebbero in questo caso fungere da princìpi? Ma qui possiamo accontentarci di aver esposto come un fatto l'uso puro della nostra facoltà di conoscere, assieme ai segni che lo contraddistinguono. Non solo però nei giudizi, ma anche nei concetti si rivela l'origine a priori di taluni di essi. Se infatti togliete a poco a poco dal concetto di un corpo, fornitovi dall'esperienza, tutto ciò che vi è di empirico, ossia il colore, la durezza, la mollezza, il peso e la stessa impenetrabilità, rimane pur sempre lo spazio che il corpo occupava (e che si è ora del tutto dileguato), spazio che non può venir soppresso. Egualmente, se sottraete al vostro concetto empirico di un qualsiasi oggetto, corporeo o non corporeo, tutte le proprietà insegnatevi dall'esperienza, non vi è tuttavia possibile sottrargli quella mediante cui lo pensate come sostanza o come inerente ad una sostanza (benché questo concetto possegga una determinazione maggiore di quello di oggetto in generale). Guidati dalla necessità con cui questo concetto vi si impone, non potete non riconoscere che esso ha la sua sede nella vostra facoltà di conoscere a priori.(Ibidem, Introduzione, II).
recettività delle impressioni sensibili e attività del pensiero

La nostra conoscenza trae origine da due sorgenti fondamentali dell'animo, di cui la prima consiste nel ricevere le rappresentazioni (la recettività delle impressioni), e la seconda è la facoltà di conoscere un oggetto tramite queste rappresentazioni (spontaneità dei concetti). Per mezzo della prima un oggetto ci è dato, per mezzo della seconda esso viene pensato in rapporto a quella rappresentazione (come semplice determinazione detanimo). Intuizione e concetti costituiscono pertanto gli elementi di ogni nostra conoscenza: per modo che non ci può venir data la conoscenza né dai concetti senza una intuizione che loro corrisponda in qualche modo, né dall'intuizione senza concetti.(Ibidem, Logica, Introduzione, I).
I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche.

Se vogliamo chiamare sensibilità la recettività del nostro animo nel ricevere rappresentazioni, in quanto viene in qualche modo modificato, daremo invece il nome di intelletto alla capacità di produrre spontaneamente rappresentazioni, ossia alla spontaneità della conoscenza. La nostra natura è tale che l'intuizione non può mai essere che sensibile, ossia tale da non contenere che il modo in cui veniamo modificati dagli oggetti. Per contro, la facoltà di pensare l'oggetto dell'intuizione sensibile è l'intelletto. Nessuna di queste due facoltà è da anteporsi all'altra. Senza sensibilità nessun oggetto ci verrebbe dato, e senza intelletto nessun oggetto verrebbe pensato.

I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche. È quindi egualmente necessario rendere sensibili i propri concetti (ossia aggiungere loro l'oggetto neIl'intuizione), e rendersi intelligibili le proprie intuizioni (ossia sottoporre a concetti). Queste due facoltà, o capacità, non possono scambiarsi le loro funzioni. l'intelletto non può intuire nulla, ed i sensi nulla pensare. Solo dalla loro unione può scaturire la conoscenza.(Ibidem, Logica, Introduzione, I).

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